Lettera aperta sulla sanità abruzzese

Caro Direttore,
la sanità in Abruzzo non se la passa bene, lo sappiamo. Dopo anni di clientelismo e di scempio perpetrato a tutti i livelli, quello che è rimasto è ben visibile.
Mi è capitato di frequentare nei giorni scorsi, mio malgrado, un reparto dell’ospedale di Chieti dove è ricoverato mio padre. L’impatto è stato devastante: visitatori e parenti urlanti e ignorati completamente dal personale di servizio (l’altro giorno mio fratello ne ha contati dieci in una stanza di pochi metri quadrati dove ci sono tre degenti), pazienti sistemati lungo il corridoio senza un minimo di privacy e di dignità, scarsa dimestichezza da parte dei sanitari con l’uso del Lei e delle più elementari nozioni di buona educazione. Ho visto indicare una paziente anziana da due infermieri con l’appellativo: “questa qui dove la mettiamo?” come se si trattasse di una seggiola.

Il reparto di cui parlo è quello di Neurologia. Mio padre è li da una settimana dopo altre tre “trascorse” in un altro reparto. E’ stato trasferito li in attesa di una risonanza magnetica che nonostante l’urgenza, ad oggi, è ancora un miraggio. Sia io che mio fratello abbiamo avuto difficoltà a farci spiegare quali siano le terapie che stanno adottando e gli esami diagnostici previsti nonostante le normative vigenti prevedano che il paziente ed i familiari più stretti siano puntualmente informati su ogni passo, su ogni terapia che può essere anche rifiutata. Ma evidentemente sul consenso informato, i medici di quel reparto, non sono stati informati. Io sono un dipendente pubblico ed ogni mio atto, ogni mia azione è regolamentata dalle leggi sulla trasparenza della Pubblica Amministrazione che mi impongono di spiegare, nel modo più opportuno ( e con tatto), quello che riguarda il cittadino. Sono anche giornalista pubblicista da 15 anni e collaboro con una testata nazionale ed ogni volta che scrivo un articolo ci metto la faccia e la firma assumendomi la responsabilità civile e penale di quello che scrivo.

In quel reparto di neurologia dell’ospedale di Chieti io e i miei familiari non abbiamo avuto ancora il piacere di conoscere i nomi dei medici che a vario titolo si alternano: a parte una dottoressa che ci è stata dal precedente reparto quale referente, degli altri sentiamo dire “quello alto, quella con gli occhiali”. E anche ieri, dopo che mio padre mi ha detto di non aver compreso bene il motivo di una serie di prelievi del sangue mi sono rivolto, con garbo e negli orari previsti, ai medici di turno presentandomi con nome e cognome e grado di parentela e naturalmente usando il fantomatico Lei. La risposta di una che indossava il camice bianco e che naturalmente si è ben guardata di dirmi il suo nome e la sua funzione è stata agghiacciante: “‘ho già spiegato a suo padre, quante volte lo devo ripetere?”. Con grande calma ho fatto notare che mio padre ha 76 anni e con la licenza elementare non riesce sempre a comprendere tutti i termini medici che gli vengono propinati a raffica e quindi può succedere che si verifichi un difetto di comunicazione.
Queste tre parole “difetto di comunicazione” hanno scatenato una reazione incredibile da parte della stessa persona dotata di camice bianco: è uscita dalla sua stanzetta e si è diretta verso la stanza dove è ricoverato mio padre nonostante le dicessi di parlare con me e che non mi sembrava il caso di coinvolgerlo davanti ad altre persone (degenti e familiari) che si trovavano li in quel momento. Scena umiliante e mortificante sia per mio padre additato davanti agli altri come rimbambito e rompiscatole e nei miei confronti (figlio di cotanto padre).
Non mi sentivo così umiliato dai tempi delle scuole elementari quando qualche maestra ti metteva a confronto davanti agli altri compagni di scuola in una sorta di giudizio sommario e senza possibilità di difesa. Oltre all’amarezza e alle decisioni che assumerò per preservare la mia onorabilità e la dignità del paziente (mio padre) mi chiedo e vi chiedo se questo modo di concepire la sanità, il rispetto delle persone malate e in difficoltà perchè indebolite dalla malattia, sia compatibile con una società che si definisce civile e moderna.
Ettore Cappetti

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