Parliamo di certezze: per la morte assurda di Annamaria Mancini ce ne sono solo due. La prima, oscenamente ovvia, è che di certezze non ce ne sono. La seconda è che, qualunque sia stata la strada percorsa all’alba del 2 dicembre, la sua auto lì sotto c’è arrivata (ma non avrebbe dovuto essere possibile) e c’è rimasta, inghiottita fra da due muri, tre ingressi e una ferrovia sulla sommità: quello che oggi si chiama sottopasso Giangabriele Menichini, intitolato all’ appuntato travolto dal treno, quando il sottopasso non c’era, mentre inseguiva un criminale. Anche Annamaria Mancini aveva fretta, doveva raggiungere la madre con la casa allagata, ma – dicono i familiari – non sarebbe mai scesa dall’auto per spostare una transenna o infrangere un divieto di transito. Ora, su chiunque venga scaricato il barile torbido delle responsabilità, è qualcuno che avrebbe dovuto obbedire alla legge, non solo a quella del buon senso: cartello adeguato, chi lo conosce? Segnaletica visibile ed efficace, chiusura preventiva del sottopasso – che avrebbe piovuto tanto lo sapevano anche i bambini – sorveglianza e informazione. E basta. Le chiacchiere stanno a zero, mentre Annamaria Mancini stava dove non doveva esserci: a meno tre.

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