Il 25 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne: aumenta la consapevolezza della piaga sociale, ma ancora troppi sono i casi di femminicidi “annunciati”.
Se, come rileva l’Istat, in Abruzzo una donna su dieci ha subito violenza, allora i numeri parlano chiaro: per sradicare la gramigna della violenza di genere resta ancora molto lavoro da fare. L’8,3% delle donne abruzzesi, che è stata vittima di molestie, corrisponde alla popolazione di un’intera provincia: un numero spropositato che troppo spesso non si conclude con l’evento in sé, ma rimane come una macchia psicologica indelebile nella mente della vittima, molte volte incapace di ricucire quel buco nero di orrore, generato dalla violenza subita.
Allargando l’inquadratura allo scenario nazionale, i numeri parlano di 1 milione 173 mila donne, cioè il 75% della popolazione femminile, che hanno subito molestie e ricatti sui luoghi di lavoro.
Il coraggio della denuncia però a volte non basta, perché svelare la violenza subita può diventare il marchio di una lettera scarlatta, se l’imperversante pensiero maschilista della società tende ancor oggi a stigmatizzare socialmente il comportamento della donna stessa, attribuendole ingiustamente la causa della violenza subita. E così si finisce troppo spesso per tacere e incassare, finché le cronache giornalistiche non restituiscono l’ennesimo caso di femminicidio “annunciato”, dove più che stupirsi per l’orrore della violenza, si finisce invece per essere fagocitati dalla morbosa curiosità di scavare nel passato della vittima e del suo carnefice, alla ricerca di quella traccia di rottura che ha generato la follia.
Perché in fondo, vittima e carnefice, non sono che due facce della medesima medaglia, il fallimento di una società che non sa più educare al rispetto: le donne a quello di se stesse e gli uomini a quello degli altri, anzi delle altre.