Pescara, Giovanni Impastato intervenuto al Premio Borsellino. “Se oggi finalmente si sa la verità sull’assassinio di mio fratello, il giornalista Peppino Impastato, è solo perché né io né mia madre siamo mai stati mossi da sentimenti di odio, rancore o vendetta, ma abbiamo solo chiesto giustizia e abbiamo vinto, perché odio, rancore e vendetta non portano da nessuna parte.
Ai ragazzi oggi dico di fare attenzione all’indifferenza e al passo successivo, ossia la rassegnazione. A me fanno paura i rassegnati, coloro che non hanno bisogno della verità perché è da questo atteggiamento mentale che nascono le aberrazioni come il razzismo e sopravvivono le mafie”. Lo ha detto Giovanni Impastato, autore del libro ‘Oltre i cento passi’, fratello di Giuseppe Impastato, ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978, e stamane protagonista della terza giornata del ‘Premio Nazionale Borsellino’ nell’Aula Magna dell’Istituto Alberghiero Ipssar ‘De Cecco’ di Pescara. Presenti, oltre alla Dirigente dell’Istituto Alessandra Di Pietro, anche il Direttore del quotidiano Il Centro Primo Di Nicola; Antonio De Grandis, Presidente del Tribunale Ecclesiastico Regionale Abruzzo e Molise, e la docente Rosa De Fabritis, responsabile del progetto Legalità nell’Istituto.
“Parlare di legalità nelle scuole è fondamentale perché significa educare al rispetto delle regole, di se stessi, al merito, alla giustizia, all’integrità, al rispetto dell’altro, valori che sono essenziali nel processo formativo – ha detto la dirigente Di Pietro -. E questa comprensione passa anche attraverso il valore della testimonianza di persone che hanno rappresentato con la loro vita comportamenti di assoluta integrità, ovvero sono modelli positivi, uomini che hanno improntato la propria vita di persone e di professionisti al rispetto della legge e al rifiuto di logiche mafiose. Attraverso il ‘Premio Borsellino’ i nostri studenti stanno ascoltando testimoni privi di retorica, che stanno raccontando frammenti fondamentali della vita del nostro Paese”. La parola quindi subito a Giovanni Impastato il quale ha ripercorso la lunga vicenda della ricerca della verità sull’omicidio del fratello, “che è una storia fatta soprattutto di depistaggi che per la prima volta hanno alzato il velo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia – ha detto Impastato -. Mio fratello era un militante di sinistra ed era un giornalista, nato in una famiglia mafiosa, la mafia ce l’avevamo dentro casa, ma che ha rifiutato quella logica e ha iniziato a combatterla in maniera geniale, ossia ironizzando su di essa, rendendola ridicola attraverso una comunicazione innovativa e lo strumento della trasmissione radiofonica. Tutto questo gli è costato caro, innanzitutto in termini familiari, quando mio padre lo ha cacciato di casa, non per assenza di affetto, ma perché mio padre era vincolato alla mafia dal giuramento e doveva far vedere di prendere le distanze dal figlio, o comunque lo avrebbero ucciso gli altri. Mia madre, Felicia, è stata invece determinante: cattolica credente, seppur non ha mai avuto fiducia in alcuni sacerdoti, è stata la ‘complice’ di Peppino. Dopo la morte di mio zio, Cesare Manzella, mafioso, aveva capito che Peppino aveva ragione e lo ha protetto. Quando Peppino è stato buttato fuori di casa e ha trovato ricovero in un garage, lei gli portava da bere e mangiare e ha iniziato a studiare le carte con lui. Quando gli uccidono il marito, poi il figlio, questa donna è esplosa, non ha riconosciuto il figlio nella bara vuota, e ha detto a tutti ‘me lo avete fatto a pezzettini’. E dopo la lunga scia di sangue, dopo l’assassinio di Peppino, tornò un cugino dall’America per difendere l’onorabilità della famiglia mafiosa Impastato, per vendicarla e recuperare le posizioni perse. Ma mia madre, cui spettava l’ultima parola, si è rifiutata di accettare la vendetta, e ha detto ‘Peppino non era uno di voi e la vendetta non la voglio’, buttando tutti i parenti fuori di casa. Mia madre era moglie di un mafioso e madre di un militante che aveva lottato contro tutte le mafie e lei ha rispettato quel figlio fino alla morte. E ha avuto il coraggio di puntare il dito contro uno dei criminali più pericolosi, Tano Badalamenti accusandolo apertamente ‘Sei stato tu a uccidere mio figlio’ e raggiungendo l’obiettivo: guardarlo negli occhi e mandarlo in crisi”. Impastato ha quindi ricordato come ci fu la complicità di un ufficiale dei Carabinieri nel tentativo di depistaggio sulla morte del fratello: “Dopo averlo ucciso, misero il cadavere sui binari della ferrovia e sotto il corpo la carica di tritolo, tentando di farlo passare prima come un atto terroristico in cui era morto il terrorista, poi come un suicidio. Siamo riusciti a far emergere la verità, ovvero che era stato un omicidio di mafia, grazie al film ‘I cento passi’, che in quarantotto ore è riuscito a fare più di quanto non abbiano prodotto vent’anni di indagini”. Infine Impastato ha ricordato come “anche la chiesa ha le sue responsabilità perché non ha avuto il coraggio di schierarsi contro la mafia, ma il Vangelo diceva tutt’altro: Cristo si è schierato. Purtroppo negli anni bui, i nemici della chiesa non erano i mafiosi. Ho apprezzato la scomunica decretata da Papa Giovanni Paolo II nei confronti dei mafiosi, ma le sue dichiarazioni sono arrivate con cento anni di ritardo e hanno lasciato solo chi lottava contro la mafia, come Don Puglisi, ucciso proprio perché isolato”. Di Nicola ha poi ricordato le sue esperienze giornalistiche nelle grandi inchieste sulla criminalità organizzata: “Ero un giovane giornalista che aveva la fortuna di lavorare per l’Espresso, ossia in una condizione di grande sicurezza, ma immaginiamo chi si occupa di antimafia nella capitale della mafia come Cinisi. Questo ragazzo, Peppino Impastato, faceva il politico e il giornalista in un posto in cui anche negli apparati pubblici spesso non si capiva chi era il ladro e chi il poliziotto. Il 9 maggio del ’78 stavo andando a Napoli per occuparmi della inchiesta che poi condusse alle dimissioni del Presidente della Repubblica Leone, e ritardai la partenza perché arrivò la notizia del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro ostaggio delle Brigate Rosse, e in quello stesso giorno si consumava la vicenda di Impastato, nei giorni in cui l’Italia temeva l’eclissi della democrazia”. A chiudere la giornata è stato il docente De Grandis che ha ricordato il grande paradosso “per il quale i mafiosi si proclamano profondamente religiosi. Provenzano usava la Bibbia per mandare ordini al suo clan, perché per la mafia la religione era uno strumento di legittimazione e di consenso tra la gente. Ma non è così: i mafiosi sono scomunicati per la chiesa”.