L’Aquila: è morto Matteo Messina Denaro. Disposta l’autopsia

Il boss Matteo Messina Denaro, arrestato il 16 gennaio scorso dopo 30 anni di latitanza, è morto all’ospedale dell’Aquila dove era ricoverato in una stanza blindata, da agosto. Al via le blindate  fasi di restituzione della salma alla famiglia per il ritorno in Sicilia del boss di Cosa Nostra: i funerali si terranno all’alba in forma privata. San Salvatore blindato per l’autopsia

E’ morto poco prima delle 2 Matteo Messina Denaro: il corpo si troverebbe ora in uno dei sotterranei dell’obitorio dell’ospedale aquilano che dista non più di cento metri dalla camera-cella nella quale era ricoverato dallo scorso 8 agosto. Fuori dall’obitorio qualche telecamera, pochi fotografi e pochi giornalisti, ma una presenza compatta di tutte le forze dell’ordine. Non ci sono curiosi, ma solo addetti ai lavori a presidiare l’ingresso dell’obitorio. Nelle prossime ore sarà possibile capire la destinazione della salma che è a disposizione dell’autorità giudiziaria di Palermo.

La Procura dell’Aquila, di concerto con quella di Palermo, ha disposto l’autopsia sulla salma di Matteo Messina Denaro. L’autopsia verrà eseguita nell’ospedale dell’Aquila.

Ospedale “San Salvatore” dell’Aquila blindatissimo in vista dell’esame autoptico sul boss. L’autorità giudiziaria, attraverso i carabinieri del Ros, sta gestendo, insieme alle autorità sanitarie, le procedure post mortem. In particolare, off limits è lo spazio, che si trova nel sotterraneo del laboratorio di anatomia patologica, dove verrà effettuata l’autopsia da un professionista dell’Università di Chieti. In queste ore si sta lavorando a percorsi protetti per trasportare nel massimo riserbo la salma del boss che è stato rinchiuso nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila in regime 41 bis dal 17 gennaio scorso, il giorno dopo l’arresto avvenuto a Palermo. Per questa delicata operazione conclusiva sono state bonificate alcune zone della struttura sanitaria aquilana.

“Quello con Matteo Messina Denaro, e’ stato un rapporto normalissimo, tra medico e paziente, è stato interessato e partecipe, sereno come può  esserlo un malato incurabile, ha sempre accettato la malattia con dignità”. Così Luciano Mutti, primario del reparto di Oncologia presso l’ospedale San Salvatore de L’Aquila, che ha avuto in cura il boss morto nella notte, fin dal suo arrivo in città dopo la cattura avvenuta a Palermo. “Da 15 giorni che non lo vedevo, l’ho lasciato alle cure palliative”, ha aggiunto.

Il capomafia, 62 anni, era malato da tre anni di tumore al colon. Venerdì, era stato dichiarato in coma irreversibile. I medici, sulla base delle indicazioni date dal paziente, che nel testamento biologico ha rifiutato espressamente l’accanimento terapeutico, nei giorni scorsi gli hanno interrotto l’alimentazione.

Le condizioni del padrino, sottoposto dal 2020 a quattro operazioni chirurgiche e a diversi cicli di chemio, sono subito apparse gravi ai medici dell’Aquila che l’hanno avuto in cura dalla cattura e che inizialmente l’hanno sottoposto alle terapie in carcere, dove era stata allestita per lui una cella con infermeria. Dopo l’ultimo intervento, il boss, molto grave, è stato trattenuto in ospedale, trattato con la terapia del dolore e poi sedato. Prima di perdere coscienza ha incontrato alcuni familiari e dato il cognome alla figlia Lorenza, avuta in latitanza e mai riconosciuta. La ragazza, insieme a una delle sorelle del capomafia e alla nipote Lorenza Guttadauro, che è anche il difensore del boss, è stata al suo capezzale negli ultimi giorni. È stato proprio il cancro al colon a portare i carabinieri del Ros e la Procura di Palermo sulle tracce del padrino riuscito a sfuggire alla giustizia per 30 anni.

Scorrono i titoli di coda sulla storia del boss riuscito a sfuggire alla cattura per 30 anni, arrestato il 16 gennaio mentre andava in una delle cliniche più prestigiose di Palermo per sottoposti alla chemioterapia. Al suo capezzale al San Salvatore de L’Aquila la figlia Lorenza: rafforzate le misure di sicurezza .

Nella sua vita da detenuto, come altri padrini prima di lui, Messina Denaro ha avuto una condotta impeccabile. Letture, poca tv, le terapie, somministrate in una infermeria ricavata accanto
alla cella, quale allenamento nei primi tempi, le lettere e le visite della figlia naturale, Lorenza, riconosciuta solo pochi giorni prima della morte.

 Intanto, sia la Direzione sanitaria della Asl dell’Aquila sia le istituzioni, all’erta dall’8 agosto scorso giorno del ricovero, stanno organizzando le fasi successive alla morte del boss e quelle della riconsegna della salma alla famiglia, rappresentata dalla nipote e legale Lorenza Guttadauro e dalla giovane figlia Lorenza, riconosciuta recentemente e incontrata per la prima volta nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila nello scorso aprile. E in questo quadro sono state rafforzate le misure di sicurezza assicurate da Polizia, Carabinieri e Guardia di finanza con il sostegno dell’Esercito oltre a tanti uomini in borghese che da circa un mese e mezzo presidiano la struttura sanitaria.

Un grave sanguinamento, poi un collasso con i parametri vitali compromessi. In coma irreversibile per le conseguenze del tumore di cui si era ammalato. I medici hanno avviato la sospensione dell’alimentazione parenterale.

Matteo Messina Denaro è stato richiuso, in regime di 41 bis, nell’istituto di pena del capoluogo regionale il 17 gennaio scorso, il giorno dopo l’arresto a Palermo. Dall’8 agosto scorso è ricoverato all’ospedale San Salvatore dell’Aquila dove era arrivato dal carcere per un intervento chirurgico per una occlusione intestinale: per qualche settimana è stato degente nel reparto di rianimazione, poi nonostante le sue proteste e quelle dei familiari, è stato trasferito nella cella del reparto per detenuti e guardato a vista della forze dell’ordine tra ingenti misure di sicurezza sia dentro sia fuori la struttura sanitaria. Nelle ultime settimane le condizioni si sono aggravate ed i medici e le istituzioni preposte hanno deciso la permanenza in ospedale. I suoi legali avevano minacciato la presentazione di una istanza di scarcerazione perché lo stato di salute non era compatibile con la permanenza in carcere dove nei primi mesi di carcerazione era stato curato con la somministrazione della chemioterapia nell’ambulatorio ricavato ad hoc in una stanza difronte alla sua cella. Per una sola volta era stato trasferito al San Salvatore per effettuare degli esami.

Una malattia lunga tre anni, quella del boss che, secondo quanto sostengono i medici, ormai non gli lascia più speranze. Dopo l’arresto il capomafia di Castelvetrano è stato portato nel supercarcere de L’Aquila dove è stato sottoposto alle cure per il cancro al colon scoperto a fine 2020. Seguito costantemente dall’equipe dell’Oncologia dell’ospedale de L’Aquila, curato in cella, dove è stata allestita per lui una sorta di infermeria, il padrino è stato in discrete condizioni fino a un mese fa. Poi, dopo due interventi, la situazione è precipitata e ne è stato disposto il ricovero nel reparto detenuti del nosocomio. Negli ultimi giorni, visto il peggiorare delle condizioni il capomafia è stato prima sottoposto alla terapia del dolore, poi sedato. Le visite dei pochi familiari ammessi le scorse settimane sono state sospese.

Messina Denaro, però, ha potuto riconoscere la figlia Lorenza Alagna, avuta durante la latitanza e le ha dato il suo cognome. Non ci sono stati, però, incontri tra i due perché il boss avrebbe preferito non farsi vedere dalla figlia nelle gravi condizioni in cui era.

Dall’arresto il padrino è stato interrogato più volte dai pm di Palermo precisando, fin dal primo incontro, che non avrebbe mai collaborato con la giustizia. E così è stato. Anzi nel corso del primo interrogatorio, con aria sfottente, non ammettendo neppure di far parte di Cosa nostra, ha detto al procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e all’aggiunto Paolo Guido, che hanno coordinato le indagini per la sua cattura, che se non fosse stato malato e costretto a ricorrere alle cure della clinica, lo Stato non l’avrebbe mai preso. Il boss, autorizzato a incontrare i familiari stretti e il suo avvocato, la nipote Lorenza Guttadauro, non ha però mai potuto vedere la sorella a lui più affezionata, Rosalia Messina Denaro, arrestata nei mesi scorsi per mafia. E’ perquisendo la sua abitazione che i carabinieri del Ros hanno potuto ricostruire la sua malattia, l’alias usato per le cure riuscendo così a porre fine a 30 anni di latitanza.

Messina Denaro, boss ‘fantasma’ per trent’anni 

“Prima o poi lo prenderemo”. Nella promessa di mettere fine alla latitanza di Matteo Messina Denaro si sono esercitati in questi anni ministri dell’Interno, investigatori, magistrati. L’ultima “primula rossa” di Cosa Nostra, 60 anni, arrestata il 16 gennaio, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta proprio trent’anni fa. E mentre la polizia scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l’immagine giovanile del boss il suo impero miliardario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato. È così che è stata smantellata la sua catena di protezione e di finanziamento. È così che è stato demolito il mito di un padrino che gestiva un potere infinito ma viveva come un fantasma, anche se la sua invisibilità non gli ha impedito di diventare padre due volte.

Di una figlia si sa tutto: il nome, la madre, le scelte che l’hanno portata a separare la propria vita dall’ombra pesante di un padre che forse non ha mai vistoHa trascorso l’infanzia e l’adolescenza in casa della nonna, poi con la madre ha cambiato residenza: non è facile convivere con lo stress delle perquisizioni, dei controlli e delle irruzioni della polizia. Dell’altro figlio si sa invece quel poco che è trapelato dalle intercettazioni: si chiama Francesco, come il vecchio patriarca della dinasty, ed è nato tra il 2004 e il 2005 in quel lembo della provincia di Trapani, fra Castelvetrano e Partanna, dove Matteo Messina Denaro ha costruito il suo potere economico e criminale.

Attento a gestire la sua latitanza, e a proteggerla con una schiera di fiancheggiatori, uno dei boss più ricercati del mondo ha lasciato di sè anche l’immagine di un implacabile playboy con i Ray Ban, le camicie griffate e un elegante casual. E dietro questa immagine ormai scolorita una scia di leggende: grande conquistatore di cuori femminili, patito delle Porsche e dei Rolex d’oro, maniaco dei videogiochi, appassionato consumatore di fumetti. Di uno soprattutto: Diabolik, da cui ha preso in prestito il soprannome insieme a quello con il quale lo chiamavano i suoi fedelissimi. Un altro ancora glielo hanno affibbiato i suoi biografi “‘U siccu”: testa dell’acqua, cioè fonte inesauribile di un fiume sotterraneo. Anche nei soprannomi Matteo Messina Denaro impersonava il doppio volto di un capo capace di coniugare la dimensione tradizionale e familiare della mafia con la sua versione più moderna.

Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismo politico. Per questo è stato considerato l’erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre don Ciccio altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998. Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. E da allora Diabolik era sempre riuscito, a volte con fortunose acrobazie degne dell’imprendibile personaggio del fumetto, a sfuggire ai blitz. Su di lui era stata posta una taglia da un milione e mezzo, ma per fargli attorno terra bruciata gli investigatori hanno stretto in una tenaglia micidiale la rete dei fiancheggiatori. Neanche i suoi familiari sono stati risparmiati: la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, un nipote.

E tanta gente fidata, costituita da prestanome spesso insospettabili, che hanno subito ripetuti sequestri patrimoniali. Il “fantasma” di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo. Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent’anni, a cominciare dalle stragi del ’92 in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è stata riconosciuta la sua mano. Lui stesso, del resto, si vantava di avere “ucciso tante persone da riempire un cimitero”. Ma se la fama di uomo spietato gli viene riconosciuta qualche dubbio si è insinuato sulla sua reale capacità di ricostruire, dopo gli arresti di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, la struttura unitaria di Cosa nostra intaccata dagli arresti e da un processo di frammentazione. Un boss che ha traghettato Cosa Nostra nel secondo millennio, senza però riuscire ad evitare di fare la stessa fine dei vecchi padrini. Nel 1992, partecipa all’omicidio di Vincenzo Milazzo, capocosca di Alcamo, e uccide anche la compagna incinta di Milazzo. Con Totò Riina e Binnu Provenzano, sostiene attentati dinamitardi: è uno degli artefici della stagione stragista di Cosa Nostra.

Su di lui era stata posta una taglia da un milione e mezzo, ma per fargli attorno terra bruciata gli investigatori hanno stretto in una tenaglia micidiale la rete dei fiancheggiatori. Neanche i suoi familiari sono stati risparmiati: la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, un nipote. E tanta gente fidata, costituita da prestanome spesso insospettabili, che hanno subito ripetuti sequestri patrimoniali. Il “fantasma” di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo.

“Non mi pento di nulla”, dice nel corso del suo primo interrogatorio. E così è stato. Ai magistrati di Palermo, Maurizio De Lucia e Paolo Guido, che incontra in carcere a L’Aquila, quando le sue condizioni di salute ancora glielo permettono, racconta solo aneddoti. Ad esempio, si vanta del suo amore per l’arte e i beni archeologici. Nel verbale di interrogatorio dello scorso 13 febbraio, nega gli omicidi e le stragi, ammette di essere “uomo d’onore” ma non nel senso di appartenente alla mafia, e racconta le origini del benessere della sua famiglia. Tutto grazie, dice, al traffico di beni archeologici portato avanti da “don Ciccio”, il padre, il campiere della mafia, che per passione diventa un grande esperto di cultura greca e latina, di arte e manufatti antichi e muore nel suo letto con tanto di doppiopetto il 3 dicembre 1998, due santini nelle tasche: San Francesco e Madonna Libera di Partanna. Come un faraone per garantirsi il viaggio senza intoppi all’aldilà. Matteo Messina Denaro, fino all’ultimo respiro, tenta di accreditare l’immagine di un imprenditore, amante del bello, playboy appassionato e collezionista di monete d’argento, vasi greci, statue. Nessuno ci crede, ovviamente. E ora il pensiero verrà al “dopo di lui”. L’eclissi di Messina Denaro, prima incarcerato e ora moribondo, pone il problema della successione al trono di Cosa Nostra. Chi dovrà sostituire ‘Diabolik’, nella gestione dei mandamenti e nell’allocazione delle grandi liquidità delle attività criminali? E soprattutto cambierà la mafia nel dopo-Messina Denaro, dopo il lungo periodo di inabissamento?