Per la morte di Piermario Morosini rese note oggi le motivazioni della sentenza di condanna dei tre medici. Il decesso del calciatore allo stadio di Pescara nel 2012.
Per il decesso vennero condannati il medico del 118 Vito Molfese (1 anno), il medico sociale del Livorno Manlio Porcellini (8 mesi) e il medico del Pescara Ernesto Sabatini (8 mesi). Secondo la sentenza tutti i medici che hanno collaborato e si sono avvicendati nei primi soccorsi a Morosini erano tenuti all’uso del defibrillatore. Ruotano tutte attorno a questa argomentazione le 40 pagine della sentenza di condanna. Una volta stabilito che il defibrillatore era presente in campo e che andava utilizzato tempestivamente, il giudice si è dunque occupato di individuare le responsabilità di chi avrebbe dovuto utilizzarlo. Il giocatore della squadra toscana si accasciò a terra al 29′ del primo tempo, durante la partita Pescara-Livorno. In merito alle cause del decesso il giudice del tribunale monocratico di Pescara, Laura D’Arcangelo, ha ritenuto condivisibili le conclusioni dei periti:
“Morosini è stato colpito da fibrillazione ventricolare indotta dalla cardiopatia aritmogena da cui era affetto e dallo sforzo fisico intenso. Poiché il Dae è uno strumento di facilissimo utilizzo – aggiunge D’Arcangelo – è del tutto evidente come il suo utilizzo debba essere parte del necessario bagaglio professionale di qualsiasi medico, anche non specialista… Gli imputati non potevano non avere visto che il Silvestre aveva prontamente predisposto il Dae accanto alla testa dell’infortunato: Porcellini, Sabatini e Molfese, intervenuti in soccorso di Morosini nei primi minuti dopo il malore, avrebbero dovuto, una volta effettuate le manovre prodromiche, procedere alla defibrillazione”.
Il giudice esclude qualsiasi incidenza, in termini di responsabilità degli altri medici, del ruolo di leader eventualmente attribuibile a uno di loro, poiché “l’utilizzo del defibrillatore in tale frangente costituisce una procedura codificata e non connessa ad alti livelli di specializzazione”. Esclusa anche la possibilità che Morosini sia stato colto da asistolia, sulla quale non sarebbe stato possibile intervenire efficacemente con il defibrillatore. Inoltre il tribunale delinea una graduazione delle responsabilità sotto il profilo della colpa:
“Considerate le competenze professionali dei sanitari intervenuti nelle operazioni di soccorso, il referente del gruppo era la persona più esperta nella specifica attività in corso (Molfese)…il quale avrebbe dunque dovuto assumere il ruolo di leader”.
D’Arcangelo affronta il nodo del nesso di causalità tra le condotte colpose dei medici e il decesso di Morosini, affrontato in sede di dibattimento a colpi di perizie e pareri degli esperti:
“Tutti gli elementi consentono di ritenere che le probabilità di ripresa del ritmo cardiaco e quindi di scongiurare la morte in quel momento e con quelle modalità sarebbero quantificabili, nei primi tre minuti dal collasso, qualora fosse stato utilizzato il Dae, intorno al 60/70 per cento”.
La valutazione si basa sulla giovane età di Morosini (26 anni) e sulle condizioni fisiche che gli avevano consentito di esercitare per anni attività sportiva a livello professionale. La cardiopatia aritmogena dalla quale era affetto, del tutto asintomatica fino all’insorgenza della fibrillazione ventricolare, interessava un’area del muscolo cardiaco molto limitata.