Moti 1971: Nduccio, ci manca ironia, Abruzzo è autolesivo
“Quarant’anni fa, uno dei miei primi spettacoli in un paesetto vicino Avezzano, c’ero io sul palco e solo uomini in piazza, mani dietro la schiena e cappello in testa: non rideva nessuno, tutti in silenzio, mi guardavano e basta. Mi sentii un po’ fuori posto diciamo… Poi l’amico che m’aveva portato lì mi disse: ‘Germà, come mi sono divertito stasera, non mi sono divertito mai prima…’. Ecco noi abruzzesi siamo fatti anche così”.
Una comunità si riconosce pure da come ride. E Germano Nduccio D’Aurelio lo sa bene, e ridere non è facile. Ridere è una cosa serissima. Germano ha iniziato la sua vita artistica di fatto poco dopo lo scossone dei Moti aquilani del 1971 e la vita lo ha portato a conoscere palmo palmo l’Abruzzo. Che è successo in questi 50 anni?
“Che non abbiamo imparato l’ironia, i grandi paesaggi abruzzesi te la stroncano. La faceva Flaiano, ma in modo triste, lo ha fatto anche Fante, con autoironia, ma l’umorismo è altro, e la satira è autolesiva. Siamo chiusi, questa è la verità non solo geografica. Abbiamo sprazzi autolesivi, ridiamo per autocommiserarci. Guarda quello che diciamo dei nostri emigrati: quello? Ha lavorato lavorato lavorato… Mica come Dean Martin, quello sì che era allegro e leggero. Una delle prove sono le stornellate del teramano e i canti delle Farchie: parlano sempre delle donne degli altri. E male”. Due sono le riflessioni successive di Nduccio sul regionalismo abruzzese visto dal lato dell’allegria e della comunicazione di un valore quale l’attrattiva verso l’esterno: “Il dialetto? Fuori dall’Abruzzo non è comprensibile e non spinge alla risata: avevo amici a Roma che anni fa mi dicevano, non sfonderai mai perché parli una lingua sconosciuta e non comprensibile, meglio che viri sul napoletano o sul barese – prosegue Nduccio – Poi può cambiare, oggi a Roma ai miei spettacoli ridono, ma è anche vero che non esiste un dialetto abruzzese, il mio è mediato, mischia 15 popoli: insomma la colpa è ‘ti Capriele’, lui che ci ha cambiato la I con la O, dagli Abruzzi all’Abruzzo, Gabriele il profeta della divisione col Molise…”. L’invettiva simpatica contro D’Annunzio colpisce anche il senso della retorica: “perché se eravamo descritti come pastori che poco si lavano, è anche vero che abbiamo 20 modi diversi per nominare il peperone mentre se è vero che la risata è una tragedia finita bene, allo stesso tempo siamo famosi per ridere di noi stessi, che è sempre meglio che prendersela con gli altri in senso lato, avvocati, medici, politici, che ti possono sempre essere utili, non si sa mai…””. Meglio parlare male di se stessi, ridere di se stessi. Poi diciamoci la verità, all’Aquila fanno battute più raffinate, sulla costa le facciamo più sboccate, c’abbiamo meno retropensieri, nelle aree interne hanno più proverbi, che sono un prodotto intelligente sapete? ‘Quando la femmina vò, manco lu diavolo ce la po”. Un lampo e c’è tutto