Dall’esperienza vissuta insieme alla Comunità “Giovanni XIII” e a “Pro Vita e Famiglia”, le riflessioni dell’associazione “Fa.Vi.Va.” sulla realtà dei senza dimora a Pescara, affidate ad una lettera aperta.
Tutto è partito da una donazione dell’associazione Pro Vita e Famiglia volta a lenire le criticità sociali aggravate in questo periodo di pandemia in favore dei senza dimora. la presidente di “Fa.Vi.Va.” Carola Profeta intanto ringrazia il Presidente di Pro Vita Toni Brandi e tutto lo staff direttivo , il Vice Presidente Jacopo Coghe e Maria Rachele Ruiu .A seguire . la fattiva collaborazione dell’attività storica Ristorante, Pizzeria, “Birreria del Corso” che ha preparato 30 pizze per i senza dimora della nostra città . Ciò è già avvenuto due settimane fa a seguito delle segnalazioni pervenute dalla Parrocchia di Sant’Antonio a favore di ulteriori 20 nuclei familiari bisognosi.
Chiaramente ieri sera è stata un’esperienza diversa, intima, profonda, che a tratti mi ha scosso, io che politicamente milito in un partito che ha delle posizioni molto precise e nette su degrado e immigrazione clandestina, per una sera sono entrata dentro quell’ “umanità sofferente”. Io non ho mai perso di vista la “questione umana” nel merito anche delle posizioni politiche, perché prima di essere una donna di destra, sono una cristiana. Persone viste da vicino, curate, pulite e delle quali si è potuto constatare una grande dignità. Con alcune abbiamo chiacchierato, ad altre abbiamo solo consegnato le pizze eppure le avrei volute portare tutte a casa mia a conferma del fatto che non basta solo accoglierle (la maggior parte dei senza dimora che abbiamo visitato erano stranieri, cittadini comunitari ed extracomunitari), ma dobbiamo consentire loro di vivere una vita dignitosa. Ed è altrettanto vero che sono innocui, alcuni di loro durante il giorno fanno anche dei piccoli lavori, ma è altrettanto giusto trovare una soluzione per rendere la città sicura e decorosa. Tante storie, tante vite ai miei occhi spezzate, magari loro non si sentono neanche così, magari per alcuni è una scelta di vita, per altri una forzatura, per altri ancora sopravvivenza, ma quello che mi ha profondamente turbato è che comunque, pur portando loro una gustosa pizza e appena sfornata, quindi una goccia nel mare, andando via rimane l’amarezza di pensare che io sarei tornata a casa mia a dormire in un letto, ad avere il mio bagno, la mia cucina e invece loro erano lì fuori a dormire sotto un ponte o sotto una trave e questo lo trovo inaccettabile.
Non posso non ringraziare e menzionale infine i volontari Cristina e Alex dell’associazione Papa Giovanni XXIII e il loro responsabile Luca Fortunato che ci hanno permesso di poter offrire questo piccolissimo dono e soprattutto di poter toccare con mano una realtà silente , invisibile, nascosta. I “nostri angeli” li chiamano i senza dimora, volontari che non portano solo vestiti, cibo, bevande, una sigaretta, ma una parola di conforto, la cosa più importante, chiedendo come stanno, prendendoli un pò in giro, scherzando e con piccoli gesti fanno sentire che non sono soli e non sono dimenticati. E’ stato divertente sentire alcuni di loro, non italiani, parlare in dialetto . Mi ha colpito una frase di uno dei volontari che diceva che non bisogna pensare a trovare una soluzione e infilarci l’essere umano, bisogna prendere l’essere umano è costruire una soluzione a sua immagine. Stamattina mi sono adoperata per chiedere informazioni riguardo alla possibilità di riaprire il dormitorio dove loro sono stati accolti fino a metà marzo e chiuso improvvisamente a causa del covid 19, si sarebbe potuto pensare di lasciarlo aperto e chiedere a chi voleva rimanere di stare in quarantena li dentro, magari organizzando la distribuzione dei pasti e dei generi di prima necessità. Non capisco perché se c’è una struttura già predisposta per l’inverno, non la si possa tenere aperta anche d’estate. L’estate non si dorme la notte? E poi anche in termini di spesa pubblica, non è meglio tenere aperto un dormitorio dove avere il polso della situazione, intervenire in casi di urgenze, e insieme agli operatori e volontari delle associazioni avviare un percorso di reinserimento sociale e magari anche di ritorno alle loro case, famiglie e paesi laddove fosse possibile, piuttosto che spendere soldi pubblici per interventi della polizia municipale che magari è chiamata, anche giustamente, dai cittadini, o delle ambulanze che devono intervenire in caso di stati alterati dovuti ad alcolismo e droga , o di pulizia da parte di Attiva dei luoghi dove loro s’insediano? Perché in Italia è così difficile attuare politiche efficaci di prevenzione e si opera sempre sull’emergenza e sulla necessità? Mi raccontavano ieri che durante il ricovero notturno al dormitorio con uno di loro, dopo aver instaurato una relazione (che è la vera cosa che manca loro), di fiducia , con tanta pazienza sono riusciti a fargli cambiare idea, a tornare a casa e iniziare un percorso di disintossicazione.
Nel Vangelo c’è scritto che per ogni peccatore salvato gli angeli fanno una grande festa in cielo, dovrebbe essere così anche per le istituzioni, per ogni essere umano salvato da un’emarginazione sociale si dovrebbe fare una grande festa e ne vale sempre la pena.
La psicologa dell’associazione la dottoressa Federica Grassano ha voluto anche lei esprimere una riflessione alla luce anche delle sue competenze professionali:
“Possiamo chiamarli clochard, barboni, homeless, senzatetto, ciascuno con la propria storia, così lontani dal nostro mondo eppure così vicini. Sono quelli che, “ancorati alla concretezza e pieni di speranza, ci danno cultura fresca e chiavi interpretative per cogliere la realtà”. Sono quelli che hanno il potere di non condannarci all’immobilismo ma di metterci le ali ai piedi. “Dalle pieghe della disperazione può nascere una speranza ostinata, gridata, netta, senza orpelli inutili né compromessi”. Ecco cosa possiamo imparare da queste persone! La nostra esperienza di volontariato ci ha fatto aprire quel sipario di indifferenza dietro il quale spesso ci proteggiamo per evitare di guardare in faccia a chi soffre. Persone che quotidianamente lottano per conquistare un posto al coperto e un pasto caldo. Scegliere di non vederle rende solo più impauriti e impotenti. L’aumento della fragilità sociale dovuto alla crescente incertezza economica si riflette in una solidarietà rivolta solo ai propri simili e ai cosiddetti diversi, magari proprio coloro che hanno più bisogno di aiuto, viene rigettata.
Come già Hegel aveva ipotizzato, la povertà è una forma di riconoscimento inadeguato: la mancanza di beni in una società basata sulla proprietà fa sì che il povero possa sentirsi escluso ed evitato, finanche disprezzato. Poveri e senza dimora sono tornati essere visti come una minaccia, qualcosa di cui aver paura, essi ci fanno vedere quello che un giorno potremmo diventare: dei reietti, dei miserabili, degli esclusi, ricordandoci con la loro presenza la nostra vulnerabilità. La partecipazione rinsalda i legami sociali, arricchisce la nostra conoscenza del mondo, elicita il feedback degli altri, consentendoci in qualche modo di vedere e conoscere meglio parti di noi stessi. Un momento di condivisione può essere la premessa per costruire le condizioni di un convivio, di uno spazio mentale per pensare l’incontro con l’altro. Solo fra individui che vivono senza paura può esserci una piena condivisione. Quando non c’è paura c’è amore, e quando c’è amore c’è piena condivisione senza alcun pregiudizio e condizionamento. Non dobbiamo avere paura di avere coraggio! Aiutare ci rende felici, orgogliosi… forse un po’ speciali.
Ascoltare è un momento del processo della comunicazione ed è uno degli aspetti fondamentali della dimensione relazionale. E’ un’azione intellettuale ed emotiva che coinvolge la capacità di comprendere a pieno ciò che l’altro vuole significare con le parole e con il corpo. Saper ascoltare significa cogliere, al di là di ciò che l’interlocutore comunica in modo diretto, eventuali bisogni e disagi non espressi apertamente. La disponibilità all’ascolto è l’elemento essenziale che rende possibile un vero incontro interpersonale. La capacità di ascoltare attentamente l’altro permette di costruire legami significativi, aumenta l’autostima e la fiducia in se stessi. Si tratta di un’abilità sociale che favorisce la creazione di un clima di rispetto, di fiducia e di comprensione tra gli individui.
La nostra società consumistica, cannibalesca, divora e digerisce tutto, anche le nostre emozioni e indignazioni. Una società sempre più allo sfascio, povera di valori, eticamente vuota. La paura si radica dentro di noi, ci incattivisce, ci rende indifferenti. La sfida è lottare contro la paura, aprire nuovi orizzonti e saper ridare futuro anche a chi è prigioniero del suo passato. Non si tratta semplicemente di rispettare e tollerare la diversità, si tratta anzitutto di ascoltarla, di renderla risorsa riportando al centro della nostra comunità civile la realtà della povertà, renderla davvero condivisibile, ridare valore alla soggettività della persona che esige e richiede cura, comprendere il valore dello “stare in mezzo” per guardare la storia dalla parte delle vittime. Stare nel mezzo, anche se si ha la sensazione di essere in un inferno, ma sempre avendo nel cuore il paradiso.
Oggi più che mai, in questo momento di crisi si ha bisogno di significati veri e di valori alti: la cultura della partecipazione contro l’ignoranza e la noncuranza.”